È una iniziativa

Essere un medico internista oggi: intervista al Presidente FADOI Francesco Dentali 

A far conoscere al grande pubblico la figura del medico internista è stato senza dubbio il medical drama “DOC – Nelle tue mani” con protagonista Luca Argentero. In Italia i medici internisti sono circa 11.000 e sono 1 milione i pazienti di cui si prendono cura ogni anno. Rispetto agli altri Paesi europei, il nostro è primo al mondo per iperspecializzazione: tuttavia, il paziente con una singola patologia ormai non esiste più. Francesco Dentali, Presidente nazionale FADOI (Federazione delle Associazioni Dirigenti Ospedalieri Internisti), racconta quanto sia cambiata la sua visione della medicina interna rispetto al passato. In Italia l’aspettativa di vita di uomini e donne è cresciuta, ad oggi si aggira intorno agli 81 anni per gli uomini e gli 85 anni per le donne: siamo tuttavia il Paese in cui gli ultra sessantacinquenni presentano più co-patologie: nel senso che il numero di ultra sessantacinquenni privi di co-patologie è al 35° posto in Europa. Per questa ragione, per il dott. Dentali, oggi la medicina interna presuppone una presa in carico totale del paziente. “Il medico internista è una sorta di medico di medicina generale, ma ad un livello diverso. Ci occupiamo di terapia sub intensiva, facciamo ecografie, prendiamo tutti gli accessi venosi e arteriosi, ventiliamo i pazienti in maniera non invasiva. Forniamo ai pazienti un’intensità di cura che, purtroppo sul territorio semplicemente non è possibile”. 

Il medico internista, tra competenze tecniche e umane 

La gestione del paziente è molto delicata poiché, il più delle volte, riflette anche un problema sociale: si tratta di persone che vivono in casa da sole o in dormitori, e che non sono in grado di svolgere diverse attività in modo autosufficiente. Per questo, il medico internista ha grandi competenze non soltanto tecniche e professionali, ma anche umane. “Io sono uno specialista in ambito cardiovascolare. Tuttavia, se dovesse capitarmi un paziente affetto da polmonite, avrei la necessità di essere in grado di poterlo gestire. È opportuno avere competenze tecniche multidisciplinari, che vadano al di là della singola materia. Non esiste, ad esempio, un paziente ricoverato che non abbia un’insufficienza renale. O ancora: il 30% dei nostri pazienti è diabetico, il 90% di loro è iperteso, più del 50% è dislipidemico”, chiarisce il dott. Dentali. BPCO – Broncopneumopatia cronica ostruttiva – e scompenso cardiaco sono le prime due cause di ricovero in medicina interna. “Il 70% di tutti gli scompensi cardiaci è ricoverato nel reparto di medicina interna, così come quasi l’80% delle BPCO riacutizzate. È possibile che arrivi un paziente con scompenso cardiaco e con anche una BPCO in anamnesi. Il nostro compito è di fare una revisione di tutta la terapia. Nell’ultimo anno e mezzo stiamo vaccinando i pazienti al termine del ricovero. Si tratta di individui chiaramente fragili, il 10-12% di loro si trova nell’ultima fase della vita. Sono pazienti che necessitano o meriterebbero uno o più vaccini. Il fatto di vaccinarli prima di dimetterli è un vantaggio non trascurabile: una volta fuori, non è detto riusciranno ad avere un contatto immediato con la sanità. Per questo, assicuriamo loro un servizio di prevenzione che fuori dall’ospedale potrebbero non riuscire ad avere”. Gli aspetti sociale e umano delle cure stanno diventando importanti tanto quanto le competenze tecniche: “A volte la competenza tecnica è addirittura meno importante. Se il paziente durante il ricovero non mangia, tutto ciò che facciamo non servirà. Il nostro lavoro è una missione: non abbandonare i pazienti. Non possiamo prescindere dall’aspetto umano, che migliora addirittura le loro prognosi. Il 50%-60% di loro, durante il ricovero, è soggetto a episodi di delirium: uno stato di disorientamento acuto che può essere esplosivo o depressivo. Chi va incontro a questo stato, ha una mortalità tre volte maggiore e in alcuni casi non torna più quello di prima”. Secondo il dott. Dentali, per ovviare a questa condizione, è opportuno integrare delle semplici attività mirate a fare compagnia al paziente: parlare con lui, rendere più domestica la stanza anche solo fissando un orologio alla parete, leggere il giornale. “È anche necessario creare una relazione stretta e umana con i volontari ospedalieri. A Varese c’è l’Associazione AVO, che ci aiuta nel dare ulteriore supporto ai pazienti. Con loro stiamo mettendo a punto un progetto con delle bambole di pezza da dare alle persone dementi o in stato di pre-demenza: se adeguatamente seguite, queste persone possono accudire queste bambole e i risultati sono incredibili”. Ciò è possibile grazie alla collaborazione degli infermieri e dei volontari. È importante crederci. “I medici internisti sono molto in contatto con i pazienti oncologici: se fanno terapia attiva si trovano nel reparto di oncologia, se tuttavia sviluppano delle complicanze ulteriori non faranno più terapia attiva e passeranno al reparto di medicina interna. Il vero luogo della sofferenza dei pazienti è la medicina interna”. 

Essere un medico internista è una scelta umana 

In Italia ci sono 10.800 medici internisti. FADOI ne rappresenta 5200, quasi il 50%: per una Società scientifica è un numero alto. Tra tutte le branche della medicina, i medici internisti hanno certamente degli svantaggi competitivi: quasi sempre si lavora nel Sistema Sanitario Nazionale, senza poter svolgere attività privata. “È più una questione di come si vive la cura. Noi vogliamo fare il meglio possibile per i nostri pazienti. Siamo più vicini alla complessità e alla loro umanità. Farlo nel modo giusto cambia la prognosi. In Italia abbiamo 4 milioni di persone di oltre 65 anni che non sono in grado di badare a sé stesse. Un medico internista sa che deve avere altri obiettivi oltre la guarigione: far star bene il paziente, fosse anche solo farlo respirare meglio”.  

Non bisogna limitarsi a curare un paziente per la patologia per cui è stato ricoverato, ma cercare di curare tutto il possibile: “Innanzitutto lo si fa per il paziente, e poi anche perché siamo uno dei Paesi con il numero di posti letto più basso per abitanti. Un altro aspetto importante riguarda anche il fatto che la medicina interna abbia tutti gli ambulatori di prevenzione cardiovascolare: se arrivano nuovi farmaci, lo specialista di riferimento diventa il cardiologo. Tuttavia, anche gli internisti sono importanti: noi il paziente lo vediamo in diversi momenti”. 

Medici internisti e terapie farmacologiche 

“Quando ho iniziato, 25 anni fa, c’era la regola del 5: se un paziente assumeva 5 farmaci, bisognava fare il possibile per toglierne uno. Come medico internista, il mio compito è quello di provare a offrire la terapia migliore al mio paziente: devo senz’altro conoscere i farmaci più innovativi”. Secondo il dott. Dentali, sono importanti due fattori: l’interazione propria dei farmaci e la tollerabilità. “Ci sono dei dati interessanti sui pazienti cardiopatici ischemici: a un anno di distanza, solo il 60% di loro prende l’anti- aggregante piastrinico. Significa che il 40% non lo assume. Di nuovo, entra in ballo la componente umana che è importante: il mio obiettivo, ossia quello di fargli assumere il farmaco, deve diventare anche il suo obiettivo. Certo, se il paziente tollera male un dato farmaco, è difficile che poi lo prenderà”. Per qualsiasi patologia tra quelle prevalenti, utilizzare la migliore terapia, ha un effetto superiore rispetto a quello di qualsiasi innovazione terapeutica. Ciò vale per tutti i pazienti. Un medico internista deve avere ben chiaro l’ambito in cui sta attuando la revisione terapeutica, che è più che mai necessaria, soprattutto perché oggi l’accesso alla sanità è difficile. “Credo molto che a un livello di intensità di cure più basso, il centro della cura debba essere il medico di medicina generale. A un livello un po’ più complesso, di quella fascia di pazienti che poi vengono dimessi, il centro della curva dovrebbero essere gli internisti con, come satellite via via più importante, gli altri specialisti. Abbiamo ottimi rapporti con i cardiologi, gli endocrinologi, gli pneumologi. Stiamo cercando di fare rete soprattutto per quelle patologie ad alta prevalenza”. 

Essere un medico internista in Italia 

Il ruolo del medico internista in Italia non è sufficientemente valorizzato, come d’altro canto le specialità ospedaliere in generale: in ogni ospedale dev’esserci un medico di pronto soccorso o di medicina d’urgenza, un anestesista, un chirurgo, un internista ed eventualmente l’ortopedico. Tutte queste specialità sono le meno gettonate tra i giovani, che scelgono per lo più dermatologia, oculistica, chirurgia plastica, otorinolaringoiatria. “Non è un caso, bisognerebbe rendere le nostre specializzazioni molto più attrattive. Nel rapporto con il paziente è chiaro siano le più complesse, perché hanno a che fare con la vita e la morte.

Tuttavia, quello del medico internista è un lavoro davvero soddisfacente, appagante, perché ha in sé il privilegio di far stare bene le persone.  

L’importanza di fare rete con le aziende  

“In questo lavoro splendido abbiamo bisogno di tante cose: i medici internisti hanno bisogno delle aziende per fare sempre il meglio possibile per i pazienti, attraverso gli aggiornamenti. Bisogna che le aziende imparino ad ascoltare i bisogni del medico. È necessario essere tutti uniti per il bene dei pazienti. Avere una classe dirigente di medici, aziende e pazienti tutti dalla stessa parte, è fondamentale”. Secondo il dott. Dentali, l’azienda deve porsi come ponte tra pazienti, associazioni di pazienti e ogni altro singolo attore che possa dare una mano.   

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